Privilegi economici e fiscali della Chiesa cattolica
Relazione di Silvio Manzati al convegno nazionale sulla laicità
tenuto a Verona il 14 ottobre 2006
È difficile trovare qualcuno che non sia d’accordo con la laicità dello Stato.
Nell’incontro dello scorso anno 2005 tra Ciampi e Ratzinger, il Presidente della Repubblica aveva riaffermato la laicità della Repubblica italiana e Ratzinger, poco diplomaticamente, gli aveva precisato che doveva trattarsi di sana laicità.
Naturalmente, a stabilire quando la laicità sia sana sarebbe compito del papa cattolico, perchè la distinzione tra laicità e sana laicità è tutta nella testa di Ratzinger e non ha riscontro nella cultura giuridica e politica moderna.
Un’altra distinzione che appare continuamente nella stampa e nei discorsi cattolici è quella tra laicità e laicismo. Tutto ciò che non corrisponde ai desideri ed agli interessi della chiesa cattolica sarebbe laicismo e non laicità. Insomma, i laicisti sarebbero i laici cattivi.
C’è una grande nostalgia per quando vigeva una religione di Stato, che lo Stato doveva prediligere, difendere, aiutare e incentivare.
Sulla stampa cattolica molto spesso abbiamo letto frasi come questa: “Laicità non significa che per lo Stato una religione valga l’altra”.
Il problema non è questo. Lo Stato laico non entra nel merito delle religioni, non giudica se una religione valga più di un’altra, come non giudica se le favole dei fratelli Grimm sono da preferire a quelle di Andersen o di Perrault.
Allo Stato laico non deve interessare che i cittadini siano atei o religiosi. Non deve favorire né la diffusione dell’ateismo né la diffusione della religione, di qualsiasi religione.
Lo Stato laico non deve né favorire né ostacolare questa o quella concezione del mondo.
In modo particolare i soldi dello Stato non devono andare per propagandare concezioni del mondo.
Nella nostra Costituzione sta scritto: “Stato e chiesa cattolica sono ciascuno, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Indipendenti, anche dal punto di vista economico.
Lo Stato laico chiede soldi ai propri cittadini per perseguire i propri scopi, tra i quali non ci sono quelli religiosi, che appartengono all’altro ordine. La chiesa cattolica chiede soldi ai propri fedeli per perseguire i propri fini siano essi religiosi o di altro tipo. Non è lo Stato laico che deve dare soldi alla chiesa cattolica. Noi diciamo questo perché siamo laici e non anticlericali.
Clericali sono coloro che pretendono e coloro che favoriscono che un fiume di denaro pubblico, alimentato da mille piccoli e grandi affluenti, vada direttamente o indirettamente alla chiesa cattolica.
Lo Stato laico non deve fare l’elemosiniere per conto della chiesa cattolica. Non deve togliere soldi ai cittadini per darli alla chiesa cattolica. O li lascia ai cittadini o li impiega per i propri scopi, tra i quali non rientrano quelli religiosi.
Noi queste cose possiamo affermarle con forza perché non ci presentiamo alle elezioni e non rincorriamo il voto dei cattolici e la benevolenza delle gerarchie ecclesiastiche.
Non ci si dica che il nostro è qualunquismo. Noi comprendiamo la necessità dei partiti di chiedere i voti su un programma politico complessivo e di evitare prese di posizione che possano allontanare i voti, ma l’UAAR non ha di queste necessità. Ecco perché l’UAAR difende la sua apartiticità e non aderisce a questo o a quello schieramento politico, pur annoverando tra i propri iscritti molti aderenti a diversi partiti.
Sui privilegî economici e tributari della chiesa cattolica in Italia c’è un diffuso silenzio.
Non solo non vengono denunciati questi privilegi, ma proprio non se ne parla. Non ci sono studi sistematici. Non ci sono approfondimenti giornalistici. Mamma Rai, che tanto spazio dà al Papa, ai cardinali e ai vescovi, non dedica trasmissioni al fiume di soldi che dalle finanze pubbliche travasa nelle casse della chiesa cattolica.
L’argomento, forse, di cui si sa di più è quello dell’8 per mille, ma anche qui la chiarezza è poco diffusa. Con l’8 per mille lo Stato italiano regala alla chiesa cattolica circa un miliardo di euro all’anno. Qualcuno crede che questi soldi vadano allo Stato Città del Vaticano. Come tutti voi sapete, invece, quel miliardo di euro va alla Cei, alla Conferenza episcopale italiana, cioè alla chiesa cattolica italiana.
Non bisogna confondere lo Stato Città del Vaticano con la chiesa cattolica italiana, anche se la chiesa cattolica italiana è rigidamente subordinata allo Stato Città del Vaticano.
Credo che la Conferenza episcopale italiana sia l’unica conferenza episcopale nazionale che non elegge il proprio presidente, che è invece nominato dal Papa.
I due Patti lateranensi hanno funzioni diverse: Il Trattato regola i rapporti tra Stato italiano e Stato Città del Vaticano. Il Concordato regola i rapporti tra Stato italiano e chiesa cattolica italiana, rappresentata dalla Cei, Conferenza episcopale italiana.
Il Concordato è la base dei privilegî di cui gode la chiesa cattolica italiana e in modo particolare dei privilegî economici e tributari.
Ma vi sono miliardi di euro che la finanza pubblica passa alla chiesa cattolica indipendentemente dal Concordato, cioè per scelta politica di forze politiche che si collocano prevalentemente nel centro-destra ma anche di forze politiche che si collocano nel centro-sinistra.
L’UAAR è per l’abolizione del Concordato, pur nella consapevolezza che si tratta di un obiettivo di non breve periodo. Vi sono molti stati nel mondo, liberi e liberali, che non hanno il concordato, dalla Francia agli Stati Uniti d’America.
C’è un fiume di denaro pubblico che va alla chiesa cattolica italiana, ma qualche regaluccio viene anche fatto allo Stato Città del Vaticano. Vorrei ricordare la questione delle acque pulite e delle acque sporche di questo Stato e non in senso metaforico. L’ articolo 6, 1° comma, del Trattato del Laterano del 1929 stabiliva: “L’Italia provvederà a mezzo degli
accordi occorrenti con gli enti interessati che alla Città del Vaticano sia assicurata un’adeguata dotazione di acque in proprietà”. Il comma non precisa se gratuitamente o a pagamento.
Naturalmente, la Santa Sede e gli inginnocchiati governi italiani hanno dato l’interpretazione della gratuità. Nel 2000 il settimanale L’Espresso (numero del 2/11/2000) informava che «la Santa Sede non ha mai pagato una lira per il consumo annuo di circa 5 milioni di metri cubi di acqua. Una quantità sufficiente per dissetare 60 mila persone, ma utilizzata in gran parte per innaffiare i lussureggianti giardini vaticani».
Nel 1929, quando Mussolini e il cardinal Gasparri firmarono il Trattato del Laterano, non si parlò dell’eliminazione delle acque di scarico, che fino agli anni Settanta confluivano nel Tevere senza alcun trattamento preliminare. Poi, il Comune di Roma costruì le vasche di depurazione. Lo Stato Città del Vaticano si avvalse di questo servizio, senza mai pagare le bollette al comune di Roma. Gli arretrati avevano raggiunto nel 1999 la somma di 44 miliardi di lire. Quando l’azienda municipalizzata di Roma, l’Acea, è stata quotata in Borsa, gli azionisti hanno reclamato il pagamento delle «bollette arretrate». La Santa Sede fece orecchie da mercante. Il ministero dell’Economia si assunse l’onere di saldare il debito della Santa Sede, ottenendo in cambio la garanzia – per il futuro – del pagamento regolare da parte del Vaticano del servizio di smaltimento delle acque di scarico, il cui costo era di circa 2 milioni di euro l’anno (secondo l’agenzia Adista, 22/11/2003).
Il Vaticano, però non pagò niente. Intervenne l’uomo di turno della divina provvidenza nella persona dal senatore di Forza Italia Mario Ferrara il quale propose un emendamento alla legge finanziaria 2004, che divenne un comma dell’art. 3. Questa norma ad ecclesiam prevedeva lo stanziamento di «25 milioni di euro per l’anno 2004 e di 4 milioni di euro a decorrere dall’anno 2005» per dotare il Vaticano di un sistema di acque proprio. Da notare che lo Stato Città del Vaticano è molto ricco di valori mobiliari e immobiliari e non avrebbe bisogno di questi regali promossi da Forza Vaticano.
Ogni anno nella legge finanziaria c’è qualche norma ad ecclesiam. Come ricorderete l’anno scorso ci fu quella per l’Ici.
L’Ici è l’imposta comunale sugli immobili.
Il problema che si pose l’anno scorso era questo: la chiesa cattolica deve pagare l’Ici per gli immobili nei quali svolge attività commerciale? Il problema venne alla ribalta grazie al comune di Ancona e alle suore Zelatrici del Sacro Cuore del medesimo comune.
Le Suore Zelatrici del Sacro Cuore di Ancona hanno degli immobili nei quali svolgono a pagamento attività sanitaria (casa di cura) e attività ricettiva (pensionato per donne anziane e studentesse universitarie), cioè esercitano attività commerciali.
Le Suore Zelatrici non sono molto zelanti con il fisco e non hanno mai presentato al comune di Ancona la denuncia ai fini dell’Ici perché ritengono (in armonia e in fedele obbedienza a quanto dice la Cei) che le attività che vi svolgono siano incluse tra quelle esenti dall’imposta perché loro sono un ente ecclesiastico. Nel 1995 il comune notifica un avviso di accertamento Ici e reclama il versamento dell’imposta per tutti gli anni compresi tra il 1993 e il 1998. L’istituto religioso ricorre alla Commissione Tributaria Provinciale, che gli dà torto. Contro la decisione di prima istanza l’ente religioso ricorre in secondo grado, dove pure gli viene dato torto. Le Suore Zelatrici del Sacro Cuore ricorrono alla Corte di cassazione, che decide la vertenza con quattro sentenze nel marzo del 2004 (cf Sentenza 4573, 4642, 4644 e 4645). La Cassazione dice che le suore devono pagare l’Ici per gli immobili nei quali svolgono attività commerciale.
Succede il finimondo. Cei, diocesi, stampa cattolica nazionale e diocesana insorgono contro questa eresia fiscale, che farebbe pagare gli enti ecclesiastici centinaia di milioni o miliardi di euro (con gli arretrati) ai comuni.
L’interpretazione data alla legge fiscale dal comune di Ancona, dalle commissioni tributarie e dalla cassazione non sarebbe canonica, non sarebbe ortodossa. La retta dottrina è stata finora seguita dalla generalità dei comuni, tant’è che i casi di controversia sono più unici che rari, dice la Cei. Secondo la Cei, preti, frati, suore, diocesi, parrocchie, congregazioni religiose et similia dovrebbero pagare l’Ici soltanto per gli immobili che danno in affitto a terzi. Sul restante immenso patrimonio immobiliare, niente.
C’è un libraio che esercita l’attività in suo immobile; a trecento metri c’è la libreria delle suore paoline. La chiesa cattolica pretende che il libraio paghi l’Ici e che le suore paoline ne siano esenti. In una provincia c’è una casa di cura di proprietà di una Spa o di una Srl e c’è un ospedale del Sacro Cuore che fa capo alla congregazione dei Poveri servi della Divina Provvidenza. Le due strutture sanitarie hanno le stesse tariffe e le stesse convenzioni con la regione. La chiesa cattolica pretende che la casa di cura che fa capo alla società paghi l’Ici e che l’ospedale che fa capo alla congregazione religiosa ne sia esente.
La laicità dello Stato, che comporta la non discriminazione in base alla professione religiosa, vorrebbe che libraio e suore paoline pagassero o non pagassero l’Ici alla stessa maniera, che l’ospedale della spa e quello dei Poveri servi della Divina Providenza pagassero o non pagassero l’Ici alla stessa maniera. La chiesa cattolica, invece, è contro la laicità dello Stato.
Dalla Cei veniamo a sapere che gli enti religiosi non facevano la denuncia dell’Ici per gli immobili in cui svolgevano l’attività commerciale e che la generalità dei comuni non faceva alcun accertamento. Il comune di Ancona costituiva un’eccezione, una mosca bianca, retto probabilmente da persecutori della chiesa cattolica, alla caccia di martiri fiscali.
Con la sentenza della Cassazione si era aperta una breccia pericolosa per la chiesa cattolica e così il governo Berlusconi viene piamente sollecitato a fare qualche cosa. Il governo emana un decreto legge sulle infrastrutture (il 163/2005) e vi inserisce un articolo 6 che con le infrastrutture non ha nulla a che vedere, ma parecchio con gli interessi della chiesa cattolica. Nel caso specifico il governo intendeva chiarire la portata di una delle norme di esenzione previste dall’articolo 7 del decreto legislativo 504 del 1992 – quello istitutivo dell’ICI – affermando che tale norma “si intende applicabile anche nei casi di immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura di cui all’articolo 16, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1985, n. 222, pur se svolte in forma commerciale se connesse a finalità di religione o di culto”. E chi è che decide se vi è connessione con finalità di religione o di culto? Naturalmente la chiesa cattolica.
Per questo attentato alla laicità dello Stato si è ricorsi al decreto legge. La Costituzione stabilisce che il decreto legge è uno strumento per emanare norme giuridiche in casi eccezionali di necessità e urgenza. Una persona sana di mente pensa che non vi sia nessuna necessità e urgenza di ampliare i privilegî della chiesa cattolica e che, eventualmente, vi sia necessità e urgenza di far pagare le tasse a preti, frati, suore, vescovi, come avviene per tutti gli altri cittadini.
Nel mese di ottobre dello scorso anno una parte dell’opinione pubblica e della stampa reagì scandalizzata. La chiesa cattolica, candidamente, rispondeva che in fondo la norma del decreto legge era soltanto l’interpretazione autentica di un’esenzione in vigore da dodici anni. Il decreto legge fu convertito dal Senato con una maggioranza che andava ben oltre quella berlusconiana. Il provvedimento, poi, non fu presentato alla Camera e decadde. Poco dopo, la stessa norma fu inserita nella legge finanziaria e il regalo alla chiesa cattolica fu confezionato.
Il mancato gettito annuale per i comuni é stato calcolato nell’ordine dei 300 milioni di euro (la Repubblica, 8/10/2005). In realtà, se la chiesa cattolica pagasse l’Ici ai comuni come una qualsiasi spa per il suo immenso patrimonio immobiliare, dovrebbe pagare alcuni miliardi di euro. Ma c’è di mezzo il concordato.
Che cosa dice il concordato in campo tributario? In materia, dispone il terzo comma dell’art. 7: “Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopo, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”.
Osservava acutamente Pietro Bellini, professore emerito di Storia del diritto canonico all’Università “La Sapienza” di Roma, che il provvedimento che estendeva l’esenzione Ici per la chiesa cattolica innovava «la disciplina concordataria per quello che riguarda il regime tributario». Osservava il prof. Bellini che la norma in questione «paradossalmente va proprio contro il sistema concordatario. Dico paradossalmente perché c’è una modifica del Concordato da parte dello Stato, peraltro in favore della Chiesa, che avviene nelle forme non previste dallo stesso Concordato. Il quale, essendo “protetto” dalla Costituzione, non può essere modificato se non nelle forme previste dalla Costituzione stessa, cioè attraverso un accordo tra le parti» (Ansa, 7/10/2005; Adista, 7/10/2005).
La Cei obietta che a godere dell’esenzione saranno anche le organizzazioni no-profit e tutte le Chiese con cui lo Stato ha stretto un’intesa: Chiesa cattolica, Tavola valdese, Unione delle Chiese avventiste del settimo giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle comunità ebraiche in Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e Chiesa evangelica luterana in Italia, ma si tratta in realtà della foglia di fico che serve a coprire questa scandalosa esenzione per gli immobili della chiesa cattolica.
In Italia ci sono centinaia e centinaia di conventi un tempo pieni di preti, frati e suore, che sono stati trasformati in esercizi ricettivi, alberghi, pensionati, ostelli o comunque siano chiamati, sempre a pagamento. Svolgono attività commerciale e sono esenti dall’Ici.
Oppure pensiamo alla conclamata centralità della famiglia. La casa dove abitano le famiglie é soggetta all’Ici, la casa dove abita il parroco pretendono che sia esente, con la motivazione che è una pertinenza dell’edificio di culto. Laicità vorrebbe che il parroco pagasse l’Ici come qualsiasi altro single.
Ogni anno nella legge finanziaria troviamo norme ad ecclesiam con le quali si regalano fior di milioni a strutture cattoliche. Ad esempio, la Finanziaria 2004 prevedeva uno stanziamento di 20 milioni di euro per il 2004 e 30 milioni per il 2005 da destinare all’Università Campus Bio-Medico. L’Università Campus Bio-Medico si autodefinisce “opera apostolica della Prelatura dell’Opus Dei”, che “intende operare in piena fedeltà al Magistero della Chiesa Cattolica, che è garante del valido fondamento del sapere umano, poiché l’autentico progresso scientifico non può mai entrare in opposizione con la Fede, giacché la ragione (che ha la capacità di riconoscere la verità) e la fede hanno origine nello stesso Dio, fonte di ogni verità”.
La Finanziaria del 2005 prevedeva inoltre un finanziamento di 15 milioni di euro per il Centro San Raffaele del Monte Tabor di don Luigi Verzè, detto Sua Sanità, «in considerazione del rilievo nazionale e internazionale nella sperimentazione sanitaria di elevata specializzazione e nella cura delle più rilevanti patologie». Poi non ci sono soldi per la ricerca nelle università statali e molti giovani ricercatori sono costretti a chiedere asilo scientifico all’estero.
Una legge ad ecclesiam è stata la n. 293 del (23 ottobre) 2003, con la quale il parlamento aveva conferito riconoscimento legislativo all’Istituto di studi politici San Pio V e ne approvava il finanziamento per una cifra pari a 1,5 milioni di euro annui. L’istituto ha sede a Roma in piazza Navona e ha promosso la creazione della Libera università degli studi San Pio V controllata, insieme all’Ateneo pontificio Regina Apostolorum, dalla Congregazione dei Legionari di Cristo (Adista, 22/11/2003). Alla cerimonia per l’inaugurazione dell’università – il 14 ottobre 2004 – hanno partecipato sia il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, sia il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio.
Nella finanziaria 2005 al comma 206 spunta un finanziamento di 1 milione di euro «allo scopo di promuovere il potenziamento della strumentazione tecnologica e l’aggiornamento della tecnologia impiegata nel settore della radiofonia». Rispetto ai soggetti che possono usufruire del contributo si rimanda al comma 190 della Finanziaria dell’anno precedente. Le uniche due emittenti che, guarda caso, rispondono all’identikit previsto dalla legge sono Radio Padania Libera, la radio della Lega Nord, e Radio Maria.
È mai possibile che tu giri in auto l’Italia e ovunque capti Radio Maria e hai difficoltà spesso a ricevere radio Rai 3?
E non parliamo della Rai. Alle volte c’è da chiedersi se siamo sintonizzati sulla radiotelevisione vaticana o sulla radiotelevisione italiana. Abbiamo assistito l’anno scorso all’orgia mediatica dell’agonia, morte, funerale ed elezione papale. Quest’orgia mediatica è stata una delle cause che hanno portato al raddoppio, anzi quasi a triplicare le iscrizioni
all’UAAR. Ciò non significa che noi ci auguriamo che ogni anno ci sia l’agonia, la morte, il funerale e l’elezione del papa. Il problema è la sovraesposizione mediatica di tutti gli eventi che riguardano la chiesa cattolica. Anche questa è una questione di laicità.
Per chi non ne fa parte, la chiesa cattolica appare come una grossa macchina per il reclutamento e il mantenimento dei propri aderenti. La chiesa cattolica impiega grandi risorse umane e materiali per autoriprodursi. A noi che siamo all’esterno, anche i suoi servizi sociali e umanitari appaiono strumentali a questo fine.
Nonostante i grandi sforzi impiegati, la presa della chiesa cattolica diminuisce progressivamente: calo delle c.d. vocazioni, aumento dei matrimoni civili, percentuale dei praticanti sempre più bassa, diminuzione di coloro che si avvalgono dell’insegnamento dell’ora di religione.
Prendiamo atto di questi fenomeni, ai quali corrispondono sempre maggiori spettacolarizzazioni di massa, magari a spese pubbliche, come avviene a Verona per il convegno ecclesiale nazionale.
Laicità vorrebbe che l’opera di indottrinamento e di reclutamento da parte di una confessione religiosa non avvenisse a spese dello Stato. Per attenuare e addolcire, si parla di educazione o di formazione religiosa. Ma quando siamo di fronte a bambini e a giovani appare più realistico parlare di indottrinamento e reclutamento.
In Italia, in base al famigerato Concordato, abbiamo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche con insegnanti scelti dai vescovi e pagati dallo Stato. Gli insegnanti di religione cattolica sono di fatto funzionari della chiesa cattolica, anche se giuridicamente sono funzionari dello Stato, anzi messi in ruolo con una corsia preferenziale. La legge per l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione è stata approvata nell’agosto del 2003 durante il governo Berlusconi, con l’appoggio di Margherita e Udeur.
È un altro 8 per mille che lo Stato dà alla chiesa cattolica, anzi di più dell’8 per mille. L’8 per mille dato alla chiesa cattolica corrisponde a circa un miliardo di euro. Lo stipendio diretto e indiretto per i 35.000 insegnanti di religione passa di molto il miliardo di euro all’anno. Lo stipendio ai professori di religione è un regalo indiretto alla chiesa cattolica.
Lasciamo da parte, poi, i diritti degli insegnanti di religione che non devono essere divorziati o madri nubili o essere in analoghe situazioni peccaminose.
Il mantenimento pubblico di questo esercito di propagandisti della fede non basta. In Italia c’è, poi, il finanziamento pubblico della scuola cattolica, pardon, scuola privata. Ma in Italia dire scuola privata significa dire scuola cattolica. La stragrande maggioranza delle scuole private italiane, infatti, o é direttamente gestita da un qualche ordine religioso o si ispira comunque all’educazione cattolica. In materia l’articolo 33 della nostra Costituzione è diventato carta straccia. Ricordate? “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Alla scuola privata italiana arriva un fiume di denaro appartenente ai contribuenti attraverso mille rigagnoli il cui percorso è arduo seguire: contributi statali, finanziamenti a singoli progetti, buoni scuola alle famiglie, sussidi regionali e di altri enti locali.
A livello statale i principali canali attraverso cui le scuole «non statali» ricevono denaro pubblico sono: i sussidi diretti alle scuole sotto forma di contributi per la gestione delle scuole (dell’infanzia e primarie) e di finanziamenti di progetti «finalizzati all’elevazione di qualità ed efficacia delle offerte formative» (per le scuole medie e superiori) e i contributi alle famiglie (i cosiddetti buoni scuola) per le scuole di ogni ordine e grado.
Nel finanziamento alla scuola privata, cioè cattolica, non c’è da fare molta distinzione a seconda dell’orientamento politico, di centro-destra o di centro-sinistra.
Nel 1999 l’allora ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, emanava due decreti (dm 261/98 e dm 279/99) poi coordinati in un unico testo che aveva per esplicito oggetto la «concessione di contributi alle scuole secondarie legalmente riconosciute e pareggiate».
Con l’approvazione della legge sulla parità scolastica, la n. 62 del 2000 (siamo all’epoca del governo D’Alema) le scuole private entrano a far parte a pieno titolo del sistema di istruzione nazionale e pertanto da questo momento in poi devono essere trattate «alla pari», anche sul piano economico. La legge istituiva di fatto i buoni scuola statali, per i quali stanziava 300 miliardi annui di vecchie lire a decorrere dal 2001.
Il dm 27/2005 della ministra Letizia Brichetto in Moratti non parla più di «concessione di contributi» ma esplicitamente di «partecipazione alle spese delle scuole secondarie paritarie».
Per il 2005 i «contributi alle scuole non statali» (circolare ministeriale n. 38 del 22 marzo 2005) ammontano complessivamente a poco meno di 500 milioni e 500 mila euro. Come se non bastasse per il 2005 sono stati finanziati con un milione di euro progetti di «formazione del personale preposto alla direzione delle scuole paritarie» (circolare n. 77 del 14 ottobre 2005).
I cosiddetti buoni scuola sono dei contributi destinati alle famiglie a parziale o totale copertura delle spese di iscrizione dei figli alle scuole. Il buono scuola statale per il 2005 è stato di 353 euro per l’iscrizione alle scuole primarie paritarie, 420 euro per l’iscrizione alle scuole medie paritarie e di 564 per l’iscrizione al prima anno delle scuole superiori paritarie.
Le iscrizioni alle scuole cattoliche che, almeno qui nel Veneto, stavano subendo una progressiva diminuzione, grazie ai buoni scuola hanno invertito la tendenza. I buoni scuola costituiscono un finanziamento indiretto delle scuole cattoliche.
Poiché la legge sulla parità scolastica non fa alcun cenno all’eventuale incompatibilità dei buoni scuola statali con quelli regionali, si è creato un sistema a doppio regime: nelle regioni che lo prevedono, le famiglie possono ricevere sia il buono scuola nazionale che quello regionale. È il caso, per esempio, del Veneto, regione antesignana in fatto di buoni scuola. Con la legge regionale n. 1 del 2001 il Veneto ha istituito i buoni scuola da destinare alle famiglie degli studenti iscritti alle scuole statali e paritarie. La regione stabilisce però che «il contributo può essere concesso solo qualora la spesa sostenuta sia
uguale o superiore a euro 200».
Poiché le tasse di iscrizione alle scuole statali non superavano di solito quella cifra, l’intero ammontare del fondo messo a disposizione dalla regione andava di fatto nelle tasche delle famiglie che decidevano di iscrivere i propri figli alle scuole private, che ricevono, a seconda del reddito e del tipo di scuola, dai 310 ai 1.300 euro cumulabili con il buono statale.
Gli oratorî parrocchiali sono sempre stati uno strumento per il reclutamento infantile e giovanile. Alcuni o molti di noi, da piccoli, hanno frequentato l’oratorio. L’oratorio era percepito come un luogo in cui si andava a giocare e dove si incontravano altri bambini. Il periodo era quello delle elementari, qualche volta si prolungava alle medie. Poi, per lo più, alle superiori c’era la fuga dalla parrocchia. Qualche volta appariva in cortile il prete che faceva interrompere il gioco perché c’era una qualche riunione, che iniziava con la preghiera e un coro che parlava del Bianco Padre che da Roma ci guidava e finiva con “al tuo cenno, alla tua voce un esercito all’altar”. L’oratorio non era un servizio per i bambini o per le famiglie, era uno strumento per il reclutamento infantile. Le cose sono sempre state chiare. Poi, è intervenuta l’ipocrisia della legge.
Nella passata legislatura venne fatta addirittura una legge per gli oratorî, non tanto per disciplinarli, che non è compito dello Stato, quanto per foraggiarli, che non sarebbe neppure un compito dello Stato laico. Il 1° agosto del 2003 venne approvata la legge sugli oratorî, sul modello di alcune leggi regionali già introdotte dalle giunte di centro-destra di Lazio, Lombardia, Abruzzo, Piemonte e Calabria. Attraverso questa legge «lo Stato riconosce e incentiva la funzione educativa e sociale svolta nella comunità locale, mediante le attività di oratorio o attività similari, dalle parrocchie e dagli enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica, nonché dagli enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato un’intesa». Si aggiungono sempre le altre confessioni religiose come foglia di fico per coprire questo scandaloso privilegio costruito per la chiesa cattolica.
Questo riconoscimento implica innanzitutto che lo Stato, le regioni e gli enti locali possano concedere in comodato (cioè a titolo completamente gratuito) beni mobili e immobili di loro proprietà. Inoltre la legge prevede l’esenzione dall’Ici dei locali dell’oratorio quali «opere di urbanizzazione secondaria». Il mancato introito da parte dei comuni di questi fondi, calcolato dalla legge pari a 2,5 milioni di euro annui, viene coperto dallo Stato. Ulteriori e più specifiche agevolazioni o finanziamenti da prevedere ai fini del riconoscimento delle attività dell’oratorio sono rimandati dalla legge nazionale alle Regioni.
La legge ha ricevuto un consenso bipartisan da parte di tutte le forze politiche, a eccezione di Comunisti italiani e Rifondazione. Siamo di fronte a un esempiuo tipico della omertosa sudditanza del mondo politico nei confronti della chiesa cattolica. Alla Camera, per la precisione, la legge è stata approvata con i voti della destra e di gran parte della sinistra (404 voti favorevoli, 19 voti contrari di R.C. e PdC.I, 14 astenuti compreso il gruppo dello SDI). Nell’occasione DS e Verdi hanno sottolineato come la legge «rispetti i diversi orientamenti filosofici, culturali e religiosi della società» e il «principio di laicità dello Stato». Il senatore della Margherita Pierluigi Petrini ha dichiarato che «il provvedimento svolge una funzione sociale non solo nei confronti dei soggetti considerati deboli, in grave stato di necessita ed emarginazione, ma si rivolge alla comunità nel suo insieme, partendo dalla considerazione che ciascuno di noi può attraversare nel corso della vita momenti difficili» (Ansa, 15/5/2003). Secondo la deputata dei Verdi Luana Zanella si tratta invece di «una norma innovativa per valorizzare quanti nel territorio intervengono nella promozione umana e sociale» (Ansa, 19/6/2003).
In Puglia i finanziamenti agli oratorî hanno dato luogo a un filone giudiziario. Durante la campagna elettorale per le regionali del 2005 l’arcivescovo di Lecce, Cosmo Francesco Ruppi, avrebbe offerto – secondo l’accusa – appoggio politico all’allora presidente della Regione Puglia, Raffaele Fitto, in cambio dell’impegno di quest’ultimo a far approvare dalla Regione Puglia il provvedimento con il quale venivano finanziati gli oratorî della chiesa cattolica pugliese. A tal fine, la giunta Fitto approvò due delibere per complessivi 74 milioni di euro: la prima, l’11 marzo 2005, quindici giorni prima delle elezioni regionali; e la seconda il 15 aprile 2005, due settimane dopo la sconfitta elettorale, mentre Fitto era ancora in carica per l’ordinaria amministrazione, in attesa dell’insediamento del nuovo presidente Nichi Vendola.
Veniamo a un altro capitolo di funzionari della chiesa cattolica stipendiati dallo Stato in base al famigerato concordato.
L’art. 11 del concordato stabilisce al primo comma che “La Repubblica italiana assicura che l’appartenenza alle forze armate, alla polizia, o ad altri servizi assimilati, la degenza in ospedali, case di cura o di assistenza pubbliche, la permanenza negli istituti di prevenzione e pena non possono dar luogo ad alcun impedimento nell’esercizio della libertà religiosa e nell’adempimento delle pratiche di culto dei cattolici”. Fin qui niente da ridire. Si tratta di un’esplicazione particolare della libertà religiosa garantita dalla Costituzione, indipendentemente dal Concordato.
Sul comma secondo, però, c’è da ridire. Stabilisce: “L’assistenza spirituale ai medesimi è assicurata da ecclesiatici nominati dalle autorità italiane competenti su designazione dell’autorità ecclesiastica e secondo lo stato giuridico, l’organico e le modalità stabiliti d’intesa fra tali autorità”. Siamo di fronte alla tipica ipocrisia del linguaggio di loro eminenze. La propaganda religiosa diventa assistenza spirituale. Uno potrebbe pensare, laicamente, che l’assistenza spirituale sia l’assistenza psicologica, ma la laurea in teologia non è sicuramente un titolo che garantisca una preparazione specifica per aiutare nel benessere psichico. Comunque, non è compito dello Stato laico assicurare l’assistenza religiosa a chicchessia. La chiesa cattolica ha preteso e pretende che ci siano suoi funzionari pagati dallo Stato perché facciano propaganda, pardon assistenza religiosa.
I cappellani sono funzionari della chiesa cattolica pagati dallo Stato italiano per perseguire finalità proprie della chiesa cattolica.
Ci sono, poi, varie convenzioni per stabilire numero e retribuzione dei cappellani militari, nella Polizia di Stato, nelle carceri, negli ospedali. Non so se ci siano anche per i vigili del fuoco, per i vigili urbani e per la nettezza urbana.
Per la Polizia di Stato c’è una convenzione tra ministro dell’interno e Cei. Nella Polizia di Stato c’è un cappellano per ogni questura. Poi ci sono cappellani presso alloggi collettivi di servizio e presso istituti di istruzione. Al vertice si trova il cappellano coordinatore nazionale. Il cappellano “cura la celebrazione dei riti liturgici, la catechesi, specie in preparazione ai sacramenti, la formazione cristiana, nonché l’organizzazione di ogni opportuna attività pastorale e culturale”, dice la convenzione tra lo Stato, che dovrebbe essere laico, e la chiesa cattolica. In modo particolare il cappellano cura la celebrazione annuale della festa di San Michele Arcangelo, questa fantasiosa entità che la chiesa ha posto a protezione della Polizia di Stato.
Per le Forze armate c’è una convenzione tra ministro della difesa e Cei. I cappellani militari sono circa 200 e fanno capo all’ordinario militare che ha il grado di vescovo.
Per le carceri c’è una convenzione tra ministro di grazia e giustizia e Cei. Alcune centinaia sono anche i cappellani nelle carceri.
Per gli ospedali ci sono protocolli d’intesa tra il presidente della Regione o l’assessore alla sanità e la Conferenza episcopale regionale o interregionale. Il protocollo d’intesa della regione Lombardia, ad esempio, prevede che per ogni ente gestore (con questo termine si intendono le «aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere e, in generale, tutte le altre strutture sanitarie pubbliche e private accreditate») «deve essere previsto almeno un assistente religioso». In strutture con più di 300 posti letto gli «assistenti religiosi» saranno due. Oltre i 700 posti letto saranno uno ogni 350. Quanto alla copertura degli oneri finanziari del servizio, l’articolo 7 comma 2 dell’Intesa afferma esplicitamente che «gli assistenti religiosi sono assunti dall’ente gestore, su designazione dell’ordinario diocesano, con contratto di natura indeterminata, a tempo pieno o parziale». Inoltre l’ente gestore deve assicurare «spazi idonei per le funzioni di culto (chiesa o cappella e sacrestia), per l’attività religiosa relativa ai servizi mortuari, ad uso ufficio, per gli assistenti religiosi ed i loro collaboratori, con relativi arredi, attrezzature ed accessori», e mettere a disposizione degli assistenti religiosi «un alloggio, adeguatamente arredato, di regola ubicato all’interno della struttura di ricovero o comunque comunicante con la stessa» (rispettivamente commi 1 e 2, art. 10). Infine, «le usuali spese di culto, nonché quelle di conservazione degli arredi, suppellettili e attrezzature occorrenti per il funzionamento del servizio, la manutenzione ordinaria e straordinaria degli spazi in uso, le pulizie (escluse quelle dell’alloggio, se esterno alla struttura), nonché le spese di illuminazione e riscaldamento di tutti i locali adibiti al servizio di assistenza religiosa, sono a carico dell’ente gestore» (comma 4, art. 10).
A ogni legge finanziaria i comuni si lamentano per i tagli che vengono operati nei loro confronti. Le risorse dei comuni sono sempre insufficienti rispetto ai loro compiti. Se i comuni non fossero obbligati a fare regali alla chiesa cattolica forse le cose andrebbero meglio. Alle volte, troppo spesso, i comuni (come pure le province e le regioni) fanno regali per propria scelta. I soldi che vanno alla chiesa cattolica sono servizi sottratti alle fasce più povere della popolazione. Forse, è per questo che talora la chiesa cattolica si definisce chiesa dei poveri.
Abbiamo visto la scandalosa esenzione dell’Ici, regalo indiretto di miliardi di euro.
Vediamo, adesso, il diretto regalo, obbligatorio per legge, di altri miliardi di euro con il meccanismo degli oneri di urbanizzazione.
Gli oneri di urbanizzazione sono stati introdotti dalla legge legge 28 gennaio 1977, n. 10, c.d. “legge Bucalossi”. La materia è oggi regolata dal decreto legislativo 6 giugno 2001, n. 380, contenente il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.
Gli oneri di urbanizzazione sono contributi, dovuti ai Comuni, da coloro che realizzano interventi di costruzione e di trasformazione edilizia. Il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione. Gli oneri di urbanizzazione sono dovuti a titolo di partecipazione alle spese che i Comuni sostengono per l´urbanizzazione del loro territorio.
Si distinguono in oneri di urbanizzazione primaria e secondaria. Gli oneri di urbanizzazione primaria sono relativi a questi interventi: strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato. Gli oneri di urbanizzazione secondaria sono relativi ad altri interventi: asili nido e scuole materne, scuole dell’obbligo nonché strutture e complessi per l’istruzione superiore all’obbligo, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree
verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie.
I comuni sono obbligati a versare l’8 per cento (si badi, non l’8 per mille) degli oneri ricevuti per l’urbanizzazione secondaria per le chiese. Cito per tutti il caso della legge regionale lombarda n. 12 del 2005 che, in un apposito articolo, obbliga i Comuni a versare l’8 per cento dei proventi degli oneri di urbanizzazione secondaria agli “enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica”. La possibilità che, altre confessioni possano accedere ai finanziamenti previsti è limitata dalla richiesta di «una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune» e dai criteri di ripartizione, basati sulla «consistenza e incidenza sociale delle rispettive confessioni» (artt. 70 e 72).
L’obbligo esiste in tutte le regioni, per tutti i comuni d’Italia. Ogni anno alcuni miliardi di euro passano dalle casse comunali a quelle della chiesa cattolica, anche là dove c’è carenza di asili nido e di scuole materne, che pure riguardano l’urbanizzazione secondaria, mentre non c’è carenza di chiese cattoliche, anzi c’è abbondanza. Ormai in Italia il numero delle chiese è eccessivo rispetto al numero di cittadini che le frequentano e non c’è più bisogno di costruirne ancora. Molte rimangono chiuse il maggior numero dei giorni della settimana, del mese o dell’anno. Da notare che anche quelle non usate o poco usate sono esenti dall’Ici. Alcune vengono aperte un giorno all’anno per la festa del santo al quale sono dedicate. Basterebbe nella finanziaria un piccolo comma per disporre che quest’obbligo è abrogato e i comuni avrebbero più disponibilità, o meno carenza, per soddisfare bisogni collettivi veri e più importanti.
Credo che questo 8 per cento sia ben più pesante dell’8 per mille. Non mi risulta che siano mai stati fatti i conti di quanto sia l’ammontare complessivo in Italia o che, comunque, sia stato diffuso attraverso i mezzi di comunicazione.
L’8 per mille è stato introdotto a seguito del concordato del 1984 e frutta alla chiesa cattolica circa un miliardo di euro all’anno; è il più noto dei canali attraverso i quali il denaro pubblico va a finanziare questa confessione religiosa.
Più precisamente, l’8 per mille è disciplinato dalla legge 222/1985, che dà esecuzione al concordato peggiorando gli obblighi finanziari dello Stato e migliorando i vantaggi economici della chiesa cattolica rispetto al precedente concordato.
Prima di questa legge lo Stato pagava lo stipendio al clero diocesano cattolico. Se avesse continuato così, diminuendo il clero (come sta di anno in anno diminuendo) sarebbe diminuito anche il peso economico per lo Stato. Con il Concordato del 1984 si è passati dal pagamento dello stipendio ai singoli preti al finanziamento della chiesa cattolica italiana in quanto tale. Per stare nel concreto, della somma che la Cei riceve con l’8 per mille neppure il 40% va per il sostentamento del clero.
La Cei fissa annualmente il reddito mensile minimo per tutti i sacerdoti diocesani. Se non vi arrivano con i propri mezzi, la Cei integra con i proventi dell’8 per mille. Nel 1999 3.200 preti sono stati autosufficienti, solo 103 sono stati a pieno carico della Cei, 36.509 hanno ricevuto un’integrazione. Perché ai preti cattolici deve essere garantito un reddito mensile minimo e agli altri cittadini italiani no? È questa la sana laicità di cui parla Ratzinger?
L’otto per mille (OPM) fu ideato dalla Commissione paritetica chiamata a stilare la bozza della legge che doveva regolamentare le questioni economiche e finanziarie fra le Parti. La delegazione cattolica era capeggiata da mons. Nicora, poi vescovo di Verona; attualmente è cardinale e presiede l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), il secondo ufficio finanziario del Vaticano. Viene dopo lo IOR, reso famoso da Marcinkus e dai suicidi di Sindona e Calvi.
L’unico scopo dell’OPM è quello di garantire il finanziamento statale alla Chiesa cattolica come tale. A tanto non si era spinto il Concordato del 1929 che, pur riconoscendo a questa numerosissimi privilegî non la finanziava direttamente, ma si limitava a pagare lo stipendio (congrua) ai preti titolari di una parrocchia.
Molti credono, con la propria firma, di dare alla chiesa cattolica l’8 per mille dell’Irpef che pagano allo Stato. Non è così. Il singolo contribuente non dà niente alla chiesa cattolica. Dice la legge che una quota pari all’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è “destinata, in parte, a scopo di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e, in parte, a scopo di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica”.
Questa legge, che cozza contro la laicità dello Stato, affida alla chiesa cattolica la gestione di una quota di un’imposta statale. La quota è proporzionata alle scelte espresse: “In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”.
Con questo meccanismo abbiamo che neanche il 40 per cento dei contribuenti firma la destinazione dell’8 per mille e tuttavia alla chiesa cattolica va più dell’88 per cento della torta.
Di anno in anno diminuisce la quota che va allo Stato. Ed è comprensibile questa poca fiducia nello Stato. Si fa di tutto per screditare lo Stato, evidentemente per avvantaggiare la chiesa cattolica. Si è passati dal 14,43% delle dichiarazioni del 1997 all’8,65% di tre anni fa. Dice la legge che lo Stato dovrebbe destinare la propria quota “per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione beni culturali”. Invece, non è così. Ad esempio, le cosiddette “missioni di pace” in Albania e nel Kosovo furono finanziate coi soldi dell’8 per mille statale del 1999, 2000 e 2001. La finanziaria 2004 ha scippato per tre anni all’8 per mille statale 80 milioni di euro annui. Nel 2004 lo Stato ha ricevuto circa 100 milioni di euro. Detraendo gli 80 milioni di euro trasferiti al bilancio generale, rimangono 20 milioni di euro. Di questi 20 milioni di euro il 44,64%, cioè quasi la metà, è andato alla conservazione dei beni culturali legati al culto cattolico.
Questa situazione è poco nota, ma sembra fatta apposta per dissuadère i contribuenti laici a firmare per lo Stato. L’uso dell’8 per mille dello Stato a favore delle Confessioni religiose, che già usufruiscono di un loro 8 per mille è irrispettoso nei confronti dei contribuenti che hanno scelto esplicitamente lo Stato al posto, appunto, delle Confessioni religiose.
La quota dell’8 per mille dello Stato viene destinata con decreto del Presidente del consiglio dei ministri. Nel decreto apparso sulla Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 2005 era possibile leggere, ad esempio, queste destinazioni dell’8 per mille statale:
Pontificia università Gregoriana di Roma (370 mila euro);
curia generalizia Casa di Santa Brigida, Roma (400 mila euro);
seminario vescovile di Fiesole (200 mila euro);
venerabile confraternita Santa Maria della Purità, Gallipoli, Lecce (300 mila euro);
Opera preservazione della fede, Ventimiglia, Imperia (420 mila euro);
Opera Pia Casa Regina Coeli, Napoli (40 mila euro);
Associazione volontari per il servizio internazionale, Forlì (202.941 euro).
L’Avsi è un’organizzazione non governativa aderente alla Compagnia delle opere, il «braccio economico» di Comunione e liberazione.
Otto per mille, esenzione Ici, otto per cento degli oneri di urbanizzazione secondaria, mantenimento dei funzionari e propagandisti della chiesa cattolica sotto forma di insegnanti di religione, cappellani militari, carcerari, ospedalieri, finanziamento degli oratori, finanziamento della scuola cattolica sono tutti espedienti con i quali lo Stato italiano toglie ad atei, agnostici, indifferenti religiosi, non praticanti, miliardi di euro per regalarli alla chiesa cattolica.
Tutto in base al Concordato o a varie leggi ad ecclesiam. Poi, vi sono migliaia e migliaia di atti amministrativi dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni che danno altri miliardi di euro alla chiesa cattolica. Il tutto ha la dimensione di una manovra finanziaria.
ULTIMO RESOCONTO UFFICIALE DELLA CHIESA CATTOLICA
Ripartizione delle somme derivanti dall’otto per mille dell’IRPEF per l’anno 2008
La 58
a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana ha approvato la proposta di ripartizione delle somme derivanti dall’otto per mille dell’IRPEF per l’anno 2008 presentata dalla Presidenza della CEI, dopo aver sentito il Consiglio Episcopale Permanente nella sessione di marzo 2008.La determinazione è stata approvata con 187 voti favorevoli su 189 votanti.
La 58
a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana–
PRESO ATTO che, sulla base delle informazioni ricevute in data 8 gennaio 2008 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, la somma relativa all’8 per mille IRPEF che lo Stato è tenuto a versare alla CEI nel corso dell’anno 2008 risulta pari a € 1.002.513.715,31 (€ 74.149.420,94 a titolo di conguaglio per l’anno 2005 e € 928.364.294,37 a titolo di anticipo dell’anno 2008);–
CONSIDERATE le proposte di ripartizione e assegnazione presentate dalla Presidenza della CEI;–
VISTI i paragrafi 1 e 5 della delibera CEI n. 57, approva le seguenti determinazioni1. La somma di
€ 1.002.513.715,31, di cui in premessa, è così ripartita e assegnata:a)
all’Istituto centrale per il sostentamento del clero: 373.000.000,00;b)
per le esigenze di culto e pastorale: 424.513.715,31 di cui:– alle diocesi: 160 milioni;
– per l’edilizia di culto: 185 milioni (di cui 110 milioni destinati alla nuova edilizia di culto, 7 milioni destinati alla costruzione di case canoniche nel Sud d’Italia e 68 milioni destinati alla tutela e al restauro dei beni culturali ecclesiastici);
– al Fondo per la catechesi e l’educazione cristiana: 32.513.715,31;
– ai Tribunali Ecclesiastici Regionali: 9.000.000,00;
– per esigenze di culto e pastorale di rilievo nazionale: 38.000.000,00;
c)
per gli interventi caritativi: 205.000.000,00 di cui:– alle diocesi: 90 milioni;
– per interventi nei Paesi del terzo mondo: 85 milioni;
– per esigenze caritative di rilievo nazionale: 30 milioni.
2. Alle voci “nuova edilizia di culto”, “Fondo per la catechesi e l’educazione cristiana” ed “esigenze di culto e pastorale di rilievo nazionale” è ulteriormente destinata la somma di
€ 21.000.000,00, prelevandola dall’avanzo di gestione del bilancio consuntivo della Conferenza Episcopale Italiana per l’anno 2007, che è così ripartita:– per la nuova edilizia di culto:
€ 10.000.000,00;– per il Fondo per la catechesi e l’educazione cristiana:
€ 8.000.000,00;– per esigenze di culto e pastorale di rilievo nazionale:
€ 3.000.000,00.3. Eventuali variazioni in positivo o in negativo della somma di cui in premessa derivanti dalle comunicazioni definitive dell’Amministrazione statale competente saranno imputate al “fondo di riserva” costituito presso la CEI.